Apologia del ritorno: perché sempre a Tokyo?
A Ikebukuro sono stata felice. In modo infantile, scanzonato, entusiasta. La felicità di quando sei bambino, solo che adesso sai che roba incredibile e inestimabile sia quella sensazione nell’arco di una vita e quindi sei felice e sul punto di scioglierti in lacrime allo stesso tempo, e ciondoli sul ciglio di emozioni assurdamente intense e opposte e mescolate tra loro pensando “non voglio che finisca.”
Il primo dell’anno 2018 volevo mettere il tempo in pausa e continuare a godermi quel giorno assolato nel bel mezzo di un quartiere che sembrava un concentrato di luce, fantasia a forma di action figure, palazzi colorati e strade larghe dove non rischiavi che succedesse niente a prescindere dal fatto che fosse giorno.
Sapere che sarebbe finita dopo poche ore e sarei ritornata solo dopo un anno o due rendeva quei momenti ancora più belli, quel tipo di bello che ti dà il forte bisogno di un fazzoletto o dieci a portata di mano.
Tutti mi chiedono come mai torno sempre a Tokyo e in Giappone invece di andare nei millemila altri posti interessanti sparsi sul globo: è per questo. Perché quando sono a Tokyo sto perennemente a metà tra la risata di quando ero bambina e il groppo in gola dolciastro e immotivato di quando facevo il liceo e vivevo per metà nei miei fumetti (ora ci vivo solo per un terzo). Perché è pazzescamente doloroso quando i tuoi miti diventano umani, e Tokyo – forse grazie al suo non essere umana – è riuscita nell’assurdo miracolo di diventare vera senza tradire le mie aspettative.
Quando passi anni a leggere e rileggere pile di libri e fumetti il risultato infatti è che le aspettative diventano alte come montagne di cui non vedi la cima.
Mi piace sempre sempre, con il sole, la pioggia, il nevischio (e lo dico da meteoropatica). Ho girato per Shinjuku alle due di notte senza avere paura, corso carica di sacchetti per le strade di Shibuya avendo l’impressione che Ran Kotobuki mi accompagnasse con la ciocca rossa che le dondolava sugli occhi (“ma quanto è bella la mia Shibuya?”), fatto la fila per mangiare takoyaki a Tsukiji parlando in inglese con una giapponese fidanzata a un tedesco e ascoltandola tradurre le nostre parole per i genitori over 50, mi sono persa vicino alla Tokyo Tower alle undici di sera senza preoccuparmi di niente (e un taxi è apparso con tempismo cinematografico nella strada deserta).
Ho dondolato le gambe dal corrimano di un quartiere residenziale del quale non ho mai ricordato il nome facendo asciugare i capelli sotto il sole d’agosto e lo stesso cielo che mi avevano promesso gli anime, sentendomi felice e pensando che la vita era bella.
Il Giappone è sempre un regalo che faccio a me stessa, un serbatoio di meraviglia e stupore per la bellezza di ciò esiste a questo mondo.
Ed ecco perché ci torno sempre.
Ti capisco perfettamente, è un po’ così anche per me. E a me piace tornare nei posti che ho amato in generale, non solo in Giappone. Ho provato a scriverne tempo fa, in un post. Mi piace la sensazione di ritrovare un posto, di sentirmici in qualche modo un po’ a casa, di provare a scoprirne qualcosa di più. Forse a volte c’è più curiosità nel tornare in un posto che nel cambiarlo ogni volta.
Mi ritrovo in pieno nelle tue parole, sin da bambina adoro tornare nei luoghi di cui mi sono innamorata e quando torno a casa da un Paese o una città che ho amato il primo pensiero va sempre a quando ci tornerò (un esempio di cui non ho ancora parlato nel blog: Oxford). Il Giappone, considerata la lontananza, per me è un po’ l’apice di questa preferenza, ma pensa che da amante della Disney non mi stufo mai neppure di tornare a Disneyland Paris (che più che un luogo è un “non luogo”, secondo me)! È vero che il mondo è grande, ma personalmente mi va bene esplorarne meno e tornare spesso in quelle parti che sento davvero vicine.